Oggi parliamo di economia circolare come di un’innovazione, ma la verità è che per secoli, riutilizzare, aggiustare, trasformare è stato l’unico modo possibile per convivere con la scarsità di risorse. Il passato ci mostra come la creatività, la necessità e l’intelligenza collettiva abbiano prodotto un sistema di riuso diffuso e profondo. Non si chiamava “green”, né “sostenibile”, ma era un approccio strutturale e spontaneo alla vita materiale. Un viaggio nel tempo ci permette di scoprire come, molto prima dell’era industriale, il riuso fosse la norma, e non l’eccezione.

Già nel Paleolitico, l’uomo primitivo recuperava e modificava strumenti in pietra per prolungarne l’utilizzo. Le lame scheggiate venivano riaffilate, i manici riadattati: non c’era alcun concetto di “scarto”, ogni oggetto aveva valore. Lo stesso accadeva nel Neolitico, dove i frammenti ceramici erano spesso impastati con nuova argilla per creare vasi più resistenti, mentre pietre usate in monumenti funerari venivano riconvertite per nuove sepolture collettive, come nel celebre sito megalitico di Locmariaquer in Bretagna .

Nell’Antico Egitto, il papiro, pur essendo relativamente accessibile, veniva spesso riutilizzato. Molti documenti ufficiali venivano raschiati e sovrascritti, dando origine a una forma primitiva di “palinsesto”, tipica anche del periodo greco-romano. Ma fu soprattutto l’Antica Roma a costruire un vero e proprio modello di riuso edilizio su larga scala. La pratica dello spolia, cioè l’impiego di elementi architettonici da edifici preesistenti in nuove costruzioni, era non solo frequente, ma anche culturalmente legittimata. Il Pantheon, l’Arco di Costantino e innumerevoli basiliche cristiane incorporano capitelli, colonne e fregi recuperati da strutture precedenti.

Nel Medioevo europeo, il riuso era letteralmente ovunque. I materiali da costruzione erano troppo preziosi per essere sprecati: le mura romane venivano smontate per costruire castelli, e i mattoni recuperati servivano a riparare ponti, conventi, abitazioni. Nelle città, il cuoio di scarpe rotte veniva cucito in nuovi sandali; gli abiti smessi si trasformavano in strofinacci o venivano venduti nei mercati come stoffe di seconda mano. Le cucine medievali conservavano ogni avanzo, le ceneri dei camini venivano usate per fare il sapone, e persino i contenitori delle lettere venivano adattati in oggetti d’uso domestico.

Nel campo della scrittura, la pratica del palinsesto raggiunse il suo apice con i monaci amanuensi, che raschiavano testi ormai considerati obsoleti o eretici per riscrivere nuovi codici. Oggi, grazie a tecnologie di imaging multispettrale, possiamo “leggere” i testi cancellati, riscoprendo intere opere perdute che esistono solo grazie al riutilizzo della pergamena.

Nel frattempo, altre civiltà non erano da meno. In Giappone, fin dall’XI secolo, la carta veniva meticolosamente lavata, pressata e riutilizzata. Il paese sviluppò intere tecniche artistiche basate sul recupero, come il kintsugi, l’arte di riparare le ceramiche rotte con l’oro, non per nascondere il danno, ma per celebrarlo. Un approccio che trasmette un messaggio potente: ciò che è rotto può essere non solo riparato, ma persino valorizzato.

Durante la Rivoluzione Industriale, paradossalmente, il riuso non scomparve. Anzi, fu alla base della nascita della produzione su larga scala. Le macchine venivano costruite e ricostruite più volte. I cenci erano raccolti sistematicamente per produrre carta. Il vetro veniva rifuso. I materiali di scarto industriale erano una risorsa per altri settori produttivi. Solo nel dopoguerra, con l’avvento dell’usa-e-getta, si cominciò a percepire l’abbondanza come “normalità” e il riuso come un’opzione di ripiego.

Tuttavia, proprio il passato ci mostra quanto il riuso fosse parte integrante del tessuto sociale ed economico, non un gesto marginale. Non era solo una necessità imposta dalla povertà, ma un’espressione di efficienza, intelligenza e rispetto per il valore materiale delle cose. I mestieri legati al recupero — stagnini, rigattieri, lustrascarpe, straccivendoli — erano parte viva delle città. La filiera del riuso era estesa, articolata e condivisa.

Oggi, mentre affrontiamo sfide ambientali che mettono in discussione i nostri modelli di produzione e consumo, recuperare queste pratiche antiche non significa tornare indietro, ma riscoprire una forma di sapere radicata nel buon senso e nella gestione sapiente delle risorse. In un certo senso, il futuro sostenibile che immaginiamo somiglia molto al passato che abbiamo dimenticato